Orari Campania Express – Treno Napoli Sorrento
l treno Campania Express è un treno speciale di EAV che copre la linea ferroviaria Napoli - Sorrento fermando a poche stazioni e impiegando quindi circa 30 minuti in meno rispetto al treno tradizionale.
Notizie sulla circumvesuviana
l treno Campania Express è un treno speciale di EAV che copre la linea ferroviaria Napoli - Sorrento fermando a poche stazioni e impiegando quindi circa 30 minuti in meno rispetto al treno tradizionale.
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Sciopero Circumvesuviana 2 Aprile Il giorno 2 (Martedì) aprile 2019 sarà indetto un nuovo sciopero di 24 ore dalle sigle sindacali F.A.I.S.A. CONF.A.I.L. e UGL che coinvolgerà la Circumvesuviana. Orari Garantiti S Fasce di garanzia dalle 6:17 alle 8:03 e dalle 13:17 alle 17:30 circa. Sciopero dalle 8:03 alle 13:17 circa e dalle 17:30 fino a fine servizio. Prime partenze garantite nella fascia 6:17/8:03 Da Napoli per Sorrento: 06:40Da Napoli per Sarno: 06:32Da Napoli per Baiano: 06:18Da Napoli per Poggiomarino: 06:24Da Napoli per San Giorgio via CD: 06:41Da Sorrento per Napoli: 06:25Da Sarno per Napoli: 06:19Da Baiano per Napoli: 06:32Da Poggiomarino per Napoli: 06:27Da San Giorgio via CD per Napoli: 07:19 Ultime partenze garantite prima delle sciopero Da Napoli per Sorrento: 07:39Da Napoli per Sarno: 08:02Da Napoli per Baiano: 07:48Da Napoli per Poggiomarino: 07:54Da Napoli per San Giorgio via CD: 07:41Da Acerra per Pomigliano: 07:16Da Sorrento per Napoli: 07:55Da Sarno per Napoli: 07:59Da Baiano per Napoli: 08:02Da Poggiomarino per Napoli: 07:57Da San Giorgio via CD per Napoli: 07:49 Prime partenze garantite dopo lo sciopero (fascia di garanzia 13:18/17:32) Da Napoli per Sorrento: 13:41Da Napoli per Sarno: 14:02Da Napoli per Baiano: 13:18Da Napoli per Poggiomarino: 13:24Da Napoli per San Giorgio via CD: 13:41Da Napoli per Acerra: 14:04Da Sorrento per Napoli: 13:25Da Sarno per Napoli (via Scafati): 13:20Da Baiano per Napoli: 13:32Da Poggiomarino per Napoli: 14:04Da San Giorgio via CD per Napoli: 13:19Da Acerra per Napoli: 14:17 Ultime partenze garantite prima dello sciopero (prima delle 17:32) Da Napoli per Sorrento: 17:09Da Napoli per Sarno: 17:32Da Napoli per Baiano: 17:18Da Napoli per Poggiomarino: 17:24Da Napoli per San Giorgio via CD: 17:11Da Napoli per Acerra: 17:04Da Sorrento per Napoli: 17:25Da Sarno per Napoli: 16:49Da Baiano per Napoli: 17:02Da Poggiomarino per Napoli: 17:04Da San Giorgio via CD per Napoli: 17:19Da Acerra per Napoli: 17:18 Per avere notizie live su ritardi e soppressioni ti consigliamo i gruppi telegram sui ritardi.
Parodia della serie Gomorra sulla Circumvesuviana di Napoli.
San Giorgio a Cremano. Sono passati circa dieci minuti dalla nostra partenza da Piazza Garibaldi, ovviamente salvo imprevisti dovuti alla proverbiale quanto imprevista assenza di materiale rotabile, ed ecco che le porte della nostra Vesuviana si fermano a San Giorgio a Cremano. Personalmente la ricordo come un incubo, per me pendolare verso Napoli: dopo essere riuscito a conquistare un posto nei corridoi a Portici, magari trovando l’incastro perfetto vicino al finestrino o indovinando la carrozza meno affollata combinando teoria dei giochi e statistica, puntualmente tutte le mie conquiste territoriali venivano vanificate dalla fiumana di persone che salivano a San Giorgio. Veramente frustrante. Normale affluenza di pendolari sangiorgesi in attesa del treno verso Napoli. Usciti dalla stazione, finalmente superiamo le virtuali mura di Napoli per avvicinarci al cuore del Miglio d’Oro e alle pendici del nostro vulcano preferito, ormai non più semplice simbolo da cartolina ma presenza quasi tangibile: anche se in realtà non è poi imponente, per noi che abitiamo alle sue pendici il Vesuvio è una vera e propria montagna torreggiante, cosi imperiosa, così… intima e così minacciosa ma al tempo stesso rassicurante. Così vicina da poterne distinguere i boschi (o meglio quello che ne è rimasto dopo gli incendi criminali dell’estate 2017); così vicina da ricordarci la nostra intelligenza nel realizzare veri e propri buchi neri abitativi a distanza di uno sputo dal Giorno del Giudizio. San Giorgio a Cremano risulta il terzo comune italiano per densità abitativa, in un podio purtroppo tutto napoletano, a testimonianza di quella longa manus edilizia che, dagli anni Sessanta, ha speculato senza ritegno nell’ambito di quella “sinergia” perversa tra Governo centrale, enti locali e camorra finalizzata alla lottizzazione delle risorse pubbliche per la costruzione del loro consenso elettorale. Comunque sia, nonostante lo squilibrio abitativo dei nostri tempi, San Giorgio a Cremano rimane una cittadina ordinata e gradevole, soprattutto impreziosita da una miriade di ville settecentesche nell’ambito di quello che potremmo chiamare il Miglio d’Oro “allargato”. In origine, infatti, il famoso Miglio d’Oro comprendeva solo quel miglio della vecchia Strada regia delle Calabrie, costellato di dorati agrumeti, che da Ercolano arrivava a Torre del Greco. Oggi è diventata il vero e proprio centro culturale di San Giorgio a Cremano tanto da essere conosciuta come il Palazzo della cultura vesuviana, ospitando concerti, manifestazioni, la biblioteca comunale e il premio Troisi dedicato ai giovani comici. A tal proposito, per chi non lo sapesse, San Giorgio a Cremano è anche la città natale di Massimo Troisi, una dei più amati e indimenticati volti del panorama culturale napoletano. Personalmente adoro la sua comicità fatta di tentennamenti, di incertezze, di timidezza ma anche di una certa dose di ingenua furbizia. Adoro la sua traboccante napoletanità, così forte grazie all’uso imperterrito della lingua napoletana (“io penso, io sogno in napoletano!”), e al suo saper disinnescare, con grande ironia, i continui luoghi comuni su Napoli e i napoletani. Successivamente questa definizione si è estesa impropriamente fino a comprendere anche Portici e San Giorgio nonché i quartieri di Barra e S. Giovanni a Teduccio, in quanto accomunati da una straordinaria concentrazione di raffinate ville e giardini rococò e neoclassici, frutto della decisione della nobilità napoletana di trasfersirsi vicino alla residenza estiva porticese di Carlo di Borbone, vuoi per il disinteressato piacere della sua vicinanza, vuoi per il fascino dell’antichità con gli allora recentissimi scavi di Ercolano. Tra le circa trenta ville sangiorgesi, una delle più importanti ed imponenti è Villa Vannucchi, la cui storia è alquanto particolare: da punto di riferimento per la nobiltà napoletana ai tempi di Gioacchino Murat, all’epoca ritrovo di feste, ricevimenti e scialacquamienti, a orto abusivo fino al restauro del 2006-2009, ad opera del Comune di San Giorgio, che l’ha riportata al suo antico splendore. Un’altra delle principali ville sangiorgesi, invece, è sicuramente Villa Bruno la quale, oltre alla ricchezza artistica ed architettonica, data la presenza di stili che vanno dal barocco al rococò al neoclassico, o all’utilizzo di diversi materiali vulcanici – tra cui spicca il tufo giallo napoletano –, ha ospitato anche la fonderia Righetti, celebre per aver fuso le due statue equestri di Carlo III di Spagna e di Ferdinando I delle Due Sicilie, oggi collocate in piazza Plebiscito a Napoli. Ed è a lui e ad un altro grande sangiorgese, Alighiero Noschese, che è stato dedicato il bellissimo murale all’interno della stazione, realizzato dagli artisti Rosk&Loste su iniziativa del sindaco Giorgio Zinno ed interamente finanziato dall’EAV di De Gregorio, nell’ambito dell’apertura delle sue stazioni alla street art. Anche chi scrive crede fortemente nelle potenzialità della street art nel valorizzare il paesaggio e le strutture urbane, in quanto rappresenta concretamente l’anello di congiunzione tra la città e le sub-culture da essa create, attingendo al nostro immaginario culturale ed esaltando al tempo stesso la creatività e modalità di espressione fuori dagli schemi. E cercando di rendere più nostri e più vicini gli spazi urbani. Purtroppo l’opera, come successo al murale di Totò a Piazza Garibaldi, che voleva non solo abbellire la struttura ma regalare il primo sorriso della giornata a tutti i passeggeri richiamando alla memoria due grandi della comicità nostrana, è stata vittima di un vero e proprio raid criminale che ne ha deturpato la bellezza, fortunatamente solo temporaneamente grazie ad un pronto intervento di ripristino. In questo modo, la difesa di un semplice murale, voluto fortemente per valorizzare alcuni dei simboli della nostra identità, si inserisce in una vera e propria guerra di civiltà contro i “nuovi” barbari in difesa di ciò che è nostro.
Avrò preso la Vesuviana a Santa Maria del Pozzo pochissime volte, forse si contano sulle dita di una sola mano, ma ricordo ancora vividamente l’ansia che mi assaliva ogni volta nel ritrovarmi, ragazzino timido ed esile, da solo lungo quei binari, aspettando impazientemente quel maledetto treno che non arrivava. Perché ogni minimo fruscio, ogni accenno di rumore poteva essere il preludio di un amichevole incontro con un simpatico pyramid head di silenthilliana memoria. Poche fermate della vesuviana hanno un alone di oscurità come quella di Santa Maria del Pozzo. In effetti, da tempo immemore Santa Maria del Pozzo rimane stabilmente nella parte alta delle classifiche, semiserie e non, delle stazioni vesuviane più inquietanti, con atmosfere degne del miglior Poe. Situata alla periferia della periferia, tra muri decadenti, stradine deserte e sottopassi oscuri, frequentemente in balìa dei vandali di turno o, ancora più spesso di drogati in cerca di un angolino tranquillo, essa rappresenta uno dei tanti esempi di quanto sia importante mantenere un certo livello di decoro della cosa pubblica e di quanto siano fondamentali un intervento e un controllo costanti dello Stato e dei suoi organi locali. Il significato di un bene pubblico, tra i quali rientrano una stazione, una strada o un parco urbano, infatti, non si esaurisce nella sua semplice destinazione d’uso, ma nel suo rappresentare un segno tangibile di un interesse attento dello Stato verso le esigenze della comunità e verso i limiti congeniti dei suddetti beni. Un bene pubblico, infatti, da un lato, influenza ed è a sua volta influenzato dal contesto in cui si trova (e qui ritroviamo la cara vecchia teoria della finestra rotta); dall’altro, è caratterizzato dalla cosiddetta non-escludibilità, cioè dal fatto che non è possibile escludere dalla sua fruizione coloro che, volontariamente o meno, non partecipano al suo costo. E proprio per questo, un bene pubblico è frequentemente soggetto al problema del free rider, cioè all’azione ora parassitaria, ora vandalica, di chi non contribuisce ai costi perché tanto non può esserne escluso e perché già c’è chi paga al suo posto. In altre parole, i beni pubblici possono diventare facile preda degli scrocconi. Si va dal non fare il biglietto (cosa vuoi che sia un biglietto? Tanto ci sarà sempre qualche pollo che lo paga) al non sparecchiare la tavola dopo pranzo (tanto c’è la mamma che pulisce per tutti e domani mangerò lo stesso) fino al non partecipare attivamente agli scioperi perché tanto ce ne sono altri cento a lottare al posto nostro. Purtroppo, però, spesso sfugge il fatto che se tutti si comportassero allo stesso modo, non ci sarebbero più servizi di cui usufruire: non avremmo più un treno efficiente, non avremmo la cena o saremmo ancora costretti a lavorare come muli per dodici ore al giorno (anche se manca poco al ritorno della schiavitù). Il bello è che proprio a causa della non escludibilità degli scrocconi, non ci sarà nessun privato razionale a realizzare tali opere pubbliche, dato che l’eventuale investitore non potrà appropriarsi in maniera esclusiva dei benefici del suo investimento. Chi altro potrebbe allora impegnarsi per la realizzazione di opere pubbliche? E perché proprio lo Stato? Perché esso è l’unica entità in grado di realizzare investimenti dai benefici a medio-lungo termine, anche ricorrendo all’indebitamento e a prescindere da un eventuale profitto a breve termine. inoltre, tali investimenti avrebbero anche l’effetto benefico di stimolare un mercato in piena deflazione e recessione, andando a rimpiazzare gli scarsi investimenti privati e a sostenere una domanda altrimenti debole. Tuttavia, il pensiero neoliberista dominante ha ben presto stigmatizzato il benché minimo intervento attivo dello Stato nell’economia di un Paese, con un pauroso taglio ai fondi destinati alla cura e allo sviluppo del patrimonio pubblico. Al Sud, poi, è tagliare è ancora più facile: essendo notoriamente dei lassisti, dei “mangiapane a tradimento”, è cosa buona e giusta abbondare con i tagli ai bilanci e con la sottrazione dei fondi europei. Oppure ha spinto fortemente per una privatizzazione da realizzarsi a tutti i costi, sulla base dell’assunto che le pure forze di mercato garantirebbero, per virtù naturali, il miglior risultato possibile. In realtà i tagli non hanno fatto altro che aggravare la situazione, perché le varie infrastrutture sono state lasciate a se stesse in mancanza di fondi, mentre le privatizzazioni spesso hanno portato ad inefficienze e a inique concentrazioni di ricchezza. Se poi aggiungiamo che molte opere si trovano in quartieri difficili, afflitti a loro volta da elevata povertà, disoccupazione ed illegalità, è estremamente probabile l’innesco di veri e propri circoli viziosi di degrado ed abbandono. Purtroppo i fenomeni sociali sono cumulativi, cioè tendono a rafforzarsi e a sedimentarsi in assenza di spinte correttive che, necessariamente, devono provenire dall’unica forza in grado di imporsi sulla perversa razionalità degli attori, ossia lo Stato. Ma dalle nostre parti lo Stato spesso non c’è, e se c’è non assiste perché impegnato a mangiare. E quindi fa rabbia, tanta rabbia, vedere il nostro patrimonio infrastrutturale abbandonato a se stesso e diventare spesso sinonimo di inquietudine e paura, di fatto consegnando i punti nevralgici del nostro stare insieme nelle mani di vandali e disperati di vario genere, e perdendo così il nostro diritto alla sicurezza e ad un viaggio senza paura.
Superato San Giovanni a Teduccio, la nostra prossima fermata è Barra. Le vicende storiche di questo quartiere ricalcano quelle di San Giovanni a Teduccio, grazie anche alla stretta prossimità geografica: anch’esso, infatti, passa da luogo di dimora di ricchi romani alle prese con i loro festini lontano dal chiasso di Napoli a territorio abbandonato e paludoso, da successivo raggruppamento di chiese e casali per poi essere destinato ad ospitare, dagli inizi del Novecento, la futura area industirale di Napoli Est. Tuttavia, una delle peculiarità di Barra è che questo resta uno degli luoghi in cui è possibile ancora trovare un’eredità concreta e attuale della religiosità popolare napoletana, incentrata su santi protettori, riti e tradizioni dalle origini molto antiche, nonostante il fatto che, oggigiorno, l’aspetto religioso abbia lasciato il passo a quello più squisitamente folkloristico. Sicuramente, San Gennaro è una delle figure più importanti dell’immaginario napoletano, il santo protettore per antonomasia, al quale il popolo napoletano, nel suo complesso, è legato da un forte amore e da una venerazione viscerale. Ciò nonostante, egli non è l’unico tramite con l’aldilà al quale cercare grazie e conforto, anzi, ogni città (o quartiere, in questo caso) ha un suo personale santo protettore. E l’immaginario religioso-folkloristico di Barra non è da meno, con la sua venerazione per Sant’Anna ma soprattutto per una festa molto particolare e sentita, la Festa dei Gigli, una delle feste più antiche della tradizione campana che, a Barra, si svolge ogni anno durante l’ultima domenica di settembre.[1] La Festa dei Gigli è qualcosa di incredibile, da vedere e vivere assolutamente in prima persona perché le parole non possono pienamente descrivere il coinvolgimento che si respira nei veicoli dei vari rioni, la musica continua che riecheggia altissima tra le strade, la spensieratezza e la voglia di far festa. E, soprattutto, lo spettacolo di queste costruzioni altissime e decorate vistosamente, i gigli, che ondeggiano e ballano sulle spalle di centinaia di cullatori a tal punto da farvi venire il mal di mare. Immaginate: undici maestosti obelischi di legno, uno per ogni paranza, alti 25 metri e pesanti più di 20 tonnellate, sorretti da un esercito di cullatori,[2] che se ne vanno in giro per le strade del quartiere a ritmo di musica, immersi in un vero e proprio mare di persone e in un chiasso assordante, fatto di canti e dalle urla della gente che incita e sprona il proprio giglio dando forza agli alzatori, in una gara puramente simbolica ma che comunque offre vanto e ammirazione per il giglio più bello e più coinvolgente. Tanti sono gli aspetti interessanti della ballata dei Gigli, dall’enorme partecipazione popolare all’incredibile sincronia dei movimenti dei cullatori sotto le direttive dei rispettivi caporali, dalla progettazione all’assemblaggio del giglio, per mezzo di associazioni in cui il sapere viene tramandato da padre in figlio.[3] Inoltre, finalmente, dal 2016 si è deciso esplicitamente di stringere la corda contro le macroscopiche inflitrazioni camorristiche nell’organizzazione della Festa, dalle sponsorizzazioni dirette dei Clan a collette sospette, fino a canzoni dai filo-camorristiche e dedicate alle donne della camorra.[4] Barra, infatti, rimane un quartiere difficile, dove è forte la presenza della camorra nella vita quotidiana e soprattutto nei momenti di aggregazione popolare in cui è facile proliferare, finendo con l’appropriarsi di una tradizione popolare allontanando chi, consapevole dell’oscura presenza, ha preferito tenersi al largo dai festeggimenti. Tuttavia, il Comune di Napoli ha deciso di giocare un ruolo più attivo, sia sponsorizzando in prima persona l’evento, sia mobilitando un maggior numero di forze dell’ordine, tanto per il mantenimento dell’ordine pubblico quanto per una scrupolosa analisi degli organigrammi delle associazioni costruttrici dei gigli. Intervento che d’ora in poi potrà giocare un ruolo fondamentale nel recupero e nella valorizzazione di tradizioni antiche ma con importanti capacità aggregative. Il filo portante del nostro viaggio, per quanto emerso finora, è la ricerca del bello inteso come cura del territorio e della comunità, come presenza attiva volta a ridare senso e dignità laddove il sudiciume della violenza (industriale, ambientale, architettonica, fisica) e dell’illegalità hanno eroso i colori della realtà. In questo senso, il lavoro da fare a Barra è ancora enorme. Barra, infatti, nonostante le apparenze, racchiude in sé un patrimonio storico-architettonico ricchissimo: situata sull’antica via delle Calabrie, quest’area è tuttora la sede di ben 122 ville vesuviane settecentesche, gran parte delle quali realizzate dai più importanti architetti del tempo, come Sanfelice, Fuga e Vanvitelli. In pratica, sono le ville del cosiddetto Miglio d’Oro napoletano, che da San Giovanni-Barra fino a Torre del Greco è costellato di splendide residenze nobiliari grazie alle quali l’aristocrazia napoletana poteva sentirsi più vicina al proprio sovrano nelle sortite di quest’ultimo alla reggia di Portici e agli scavi di Ercolano. Purtroppo è un colpo allo stomaco vedere gran parte di esse travolte dall’incuria, come villa Letizia, villa Salvetti o villa Bisignano, maestosi mausolei di un passato di fasti lontani, ormai abbandonati nel silenzio. Purtroppo, il recupero e il reintegro di questi lasciti del passato non può avvenire senza un convinto intervento pubblico, magari con un intervento ad ampio raggio che coinvolga anche tutti gli altri Comuni del Miglio d’Oro, o magari concedendo l’utilizzo dei locali per scopi associativi e culturali. Tutto, in altri termini, è condizionato da cosa lo Stato, nelle varie forme di Comuni, Province e Regioni, ha intenzione di fare per salvaguardare la ricchezza materiale e immateriale di queste realtà. O meglio, da come lo Stato intende considerare se stesso, cioè se rapinatore e complice delle bande criminali o valorizzatore. E da come lo Stato intende pensare questi luoghi, cioè se semplici bacini di voti e promesse elettorali o futura locomotiva per l’intero Paese. Ma se un attivo e mirato intervento pubblico può, in futuro, creare circoli virtuosi e connessioni positive all’interno della comunità, grazie al ripristino della legalità e alla cura (e successivo re-inserimento attivo) del patrimonio storico, dall’altro ci preme sottolineare che già vi sono alcuni esempi positivi che da tempo costituiscono un argine contro le insidie della strada e una cultura della sopraffazione, come la piscina dello Sporting Club Napoli...
Via Gianturco Due minuti di viaggio, nemmeno il tempo di sfogliare due pagine del vostro libro, di avviare un giochino sul telefono o di attaccare bottone con la mora di fronte parlando delle mezze stagioni che non ci sono più, che già si profila la prima tappa del nostro cammino verso Sorrento, la stazione di Via Gianturco. Fino ai recenti lavori di riqualificazione, conclusisi in questi giorni, via Gianturco a prima vista era una stazione abbastanza anonima ed estremamente spartana, situata in una zona non propriamente residenziale perché di fatto non era altro che un semplice scalo per tutti i lavoratori della zona industriale e del porto. Diciamo che non avrebbe sfigurato tra le fantastiche stazioni dark (leggesi in rovina) di Gotham. Peccato che non ci fosse un pipistrello mascherato a vigilare. Con il declino della cinta industriale, infatti, e il conseguente degrado e abbandono della zona circostante, la stazione è stata lasciata a se stessa, circondata per giunta da un esteso campo Rom che avrebbe sicuramente fatto la felicità della retorica salviniana. Non tutti i mali venivano per nuocere: perché recarsi nelle periferie delle grandi metropoli indiane o sudamericane per analizzare i processi di espansione delle bidonvile, quando ne abbiamo mirabili esempi dietro casa? La situazione, al giorno d’oggi, è progressivamente e sensibilmente migliorata, grazie all’azione congiunta del Comune di Napoli, dell’EAV, nella persona del Presidente Umberto De Gregorio, e di imprenditori locali che hanno contribuito nel valorizzare l’utilità di questa piccola fermata. Da un lato, infatti, il Comune ha provveduto allo sgombero dell’accampamento nomade, dato che violava palesemente gran parte delle normative vigenti conosciute e sconosciute in materia di igiene e sicurezza. Dall’altro, la presidenza dell’EAV ha investito energie e risorse per un doveroso restilying della struttura, trasformandolo da un semplice casotto imbruttito dal tempo e dal declino dell’area circostante in un pregevole esempio di recupero artistico di siti di archeologia industriale. La bellezza salverà il mondo, diceva il principe Myskin ne L’Idiota. Finora non avevo mai ben capito il significato di questa frase, o meglio, essa si era cristallizzata in immagini eteree ed indefinite, lontano da una sua comprensione concreta. Del resto, in che modo un concetto tanto soggettivo ed indefinito quanto quello di bellezza potrebbe salvare concretamente la realtà in cui viviamo? Può farlo perché, concretamente, bellezza significa prendersi cura di ciò che è nostro, significa sottrarre qualcosa all’incuria e al degrado del tempo, e renderlo disponibile agli altri. Spesso dimentichiamo che è la nostra percezione del valore della realtà in cui viviamo a determinare il grado di vivibilità del nostro quartiere, della nostra strada, della nostra stazione. È la teoria delle finestre rotte: basta un piccolo segno di degrado, come il finestrino rotto di una macchina parcheggiata, a dare il via libera ad un vortice di inciviltà. Non c’è quartiere in che resista. La bellezza del murale della stazione, quindi, va oltre lo spettacolare gesto artistico: è bello perché testimonia una presenza, un senso di attenzione e di cura, la volontà di superare le catene del degrado. La Bellezza è civiltà. E quindi non fine a se stessa ma tesa a valorizzare gli sforzi della comunità, perché dalla stazione di via Gianturco in cinque minuti puoi raggiungere a piedi autentici paradisi culinari, come Eccellenze campane, La Scottona e tanti altri ancora, alla ricerca delle prelibatezze della nostra tradizione. O le aziende della zona. O il porto. O via Marina. Ed è finalmente un piacere ritornare a casa, dopo anni di lontananza, e vedere il bello laddove vi erano abbandono e finestre rotte. “Una volta c’era solo l’oscurità. Se me lo chiedessi, ti direi che la luce sta vincendo”.[1] [1] True Detective, st. 1, ep. 8 “Carcosa”.