Gruppi segnalazione ritardi Circumvesuviana
Gruppi segnalazioni ritardi Circumvesuviana
Gruppi segnalazioni ritardi Circumvesuviana
Immaginate un mondo senza Internet. Un mondo senza email, senza social networks, senza Amazon. Tutte le cose che oggi ci sembrano semplicissime, come ad esempio prenotare un volo o una camera di hotel, dovrebbero essere svolte di persona o per telefono. Immaginare un mondo senza internet, insomma, significherebbe tornare indietro di trent’anni.
Amanti dell’arte, dell’archeologia e delle passeggiate in compagnia, sapete che gran parte dei luoghi di interesse culturale della Campania è raggiungibile con i mezzi pubblici? Spotted ‘Vesuviana vi invita a passare una giornata in piacevole compagnia in occasione dell’iniziativa la Domenica al museo del MIBACT. La prima tappa sarà il parco archeologico di Ercolano, facilmente raggiungibile con il nostro treno preferito.Appuntamento domenica 3 marzo presso la stazione di Ercolano scavi alle ore 10:30 per recarci insieme al parco archeologico. Come previsto dall’iniziativa, l’ingresso al sito è gratuito. Nota Bene: Questa campagna di sensibilizzazione non garantisce la presenza di materiale rotabile, ma incentiva l’uso dei mezzi pubblici per passare una giornata all’insegna dell’arte e in buona compagnia.
Ci eravamo lasciati a Cavalli di Bronzo, con i suoi inaspettati rimandi russi e la sua galleria pronta ad inghiottirci per portarci alla successiva fermata: Portici Bellavista. Alla fermata, la stazione è pronta ad accoglierci con il trucco appena rifatto, dato che si è appena conclusa una corposa opera di restyling la quale, oltre alle significative misure di manutenzione straordinaria, ha previsto anche una nuova linea estetica grazie al coinvolgimento di Inward, l’Osservatorio sulla Creatività Urbana,[1] e alla mano (e al talento) di Mattia Campo dell’Orto. [2] L’obiettivo Obiettivo del restyling è ovviamente quello di riportare in auge la stazione storica di una città di capitale importanza nello sviluppo del sistema ferroviario italiano, attraverso uno strumento estremamente moderno e potente quale la street art e una rilettura in chiave simbolica degli elementi portanti della lunga epopea del treno: il viaggio e la fortuna. Il Viaggiatore che non ha mai visitato Portici dovrebbe a questo punto risalire sul piano stradale, fare alcuni passi verso via Diaz e fermarsi all’incrocio, guardare a sinistra e poi a destra e, infine, capirebbe. Capirebbe la bellezza senza tempo di una piccola terrazza sul golfo, sovrastatata da quel piccolo gigante del Vesuvio, talmente vicino che sembra quasi possibilie toccarlo o contargli gli alberi. Verso il mare Oppure, verso sera, scendere verso il Granatello, il nostro storico porticciolo settecentesco, prendersi una birra tra i tanti locali della zona e camminare sulla strada superiore verso il faro, ammirando il tramonto sulle luci di Napoli, Sorrento in lontananza e Capri e Ischia, e a far da testimone l’onniprosente Vesuvio che svetta sulla villa d’Elbouef. Oppure, verso sera, scendere verso il Granatello, il nostro storico porticciolo settecentesco, prendersi una birra tra i tanti locali della zona e camminare sulla strada superiore verso il faro, ammirando il tramonto sulle luci di Napoli, Sorrento in lontananza e Capri e Ischia, e a far da testimone l’onniprosente Vesuvio che svetta sulla villa d’Elbouef. La storia della ferrovia Ma Portici non è solo panorami e passeggiate, tra saliscendi che farebbero la gioia dei ciclisti, ma anche storia, cultura e tradizione. Nella storia della circumvesuviana Portici ha senz’altro un posto di fondamentale importanza, dal momento che è proprio qui che l’ormai secolare opera ferroviaria italiana prese avvio con la celebre tratta Napoli-Portici del 1839. Si trattò di un’opera rivoluzionaria, voluta in primis per rendere più agevole il trasferimento del sovrano Ferdinando II e della corte tra le rispettive residenze estive e la capitale (cosa sarebbe l’umanità senza la pigrizia?), intuendo al tempo stesso le potenzialità delle strade ferrate. Quel passato è custodito dal Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa,[3] i cui padiglioni, tra i molteplici frammenti del nostro passato ferroviario, ospitano una ricostruzione storica del primo convoglio della Napoli-Portici nonché la carrozza-salone del treno dei Savoia. Ma il glorioso passato di Portici è evidente anche grazie alla sua Reggia, che ora ospita la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, il Bosco Reale e il giardino botanico, nonché la villa d’Elbouef (ora sotto restauro) le numerose ville del Miglio d’Oro, come Villa Savonarola, Villa Fernandes o Palazzo Mascabruno, al cui interno contiene il Galoppatoio Reale, primo esempio di galoppatoio al coperto in Europa (il secondo è a Vienna). Il feudo Ma andando indietro nel tempo, come non evidenziare che nel 1699 i cittadini di Portici, insieme ad esempio unico nell’Italia meridionale di emancipazione dal vincolo feudale.[4]Oppure, il ruolo di Portici nella parentesi della Repubblica napoletana un secolo dopo quando, il 13 giugno 1799, le truppe realiste riuscivano ad impadronirsi del forte del Granatello per poi preparasi all’attacco decisivo verso Napoli.[5] Tra le varie leggende popolari, tra l’altro, si dice che i morti della battaglia infestino ancora molti dei palazzi e ville, come Villa Aversa, Palazzo Lauro Lancellotti o Villa Maltese.[6] A proposito di tradizioni, invece, spicca la devozione per il patrono della città, San Ciro, festeggiato in due occasioni, ossia il 31 gennaio e la prima domenica di maggio, occasione quest’ultima in cui si tiene una solenne processione e la statua del santo viene portata a spalla per le strade della città da decine di portantini e dalle varie Arciconfraternite religiose, tra drappi e stendardi. Riflessione Insomma, Portici è un luogo ricco di importantissimi riferimenti culturali, centrali nello sviluppo della nostra storia e identità napoletana, che aspettano solo di essere visitati. [1] Interessante la stesura della mappa del writing a Napoli: http://www.inward.it/attivita/mappa-del-writing-a-napoli. [2] http://www.inward.it/attivita/lopera-di-mattia-campo-dallorto-a-portici [3] http://www.museopietrarsa.it/ [4] Vorrei ringraziare lo studioso, nonché amico, Gianluca Mazzei per la sua inestimabile opera divulgativa. [5] https://cronologia.leonardo.it/storia/a1799h.htm [6] http://www.lospeakerscorner.eu/i-fantasmi-di-portici/
San Giorgio a Cremano. Sono passati circa dieci minuti dalla nostra partenza da Piazza Garibaldi, ovviamente salvo imprevisti dovuti alla proverbiale quanto imprevista assenza di materiale rotabile, ed ecco che le porte della nostra Vesuviana si fermano a San Giorgio a Cremano. Personalmente la ricordo come un incubo, per me pendolare verso Napoli: dopo essere riuscito a conquistare un posto nei corridoi a Portici, magari trovando l’incastro perfetto vicino al finestrino o indovinando la carrozza meno affollata combinando teoria dei giochi e statistica, puntualmente tutte le mie conquiste territoriali venivano vanificate dalla fiumana di persone che salivano a San Giorgio. Veramente frustrante. Normale affluenza di pendolari sangiorgesi in attesa del treno verso Napoli. Usciti dalla stazione, finalmente superiamo le virtuali mura di Napoli per avvicinarci al cuore del Miglio d’Oro e alle pendici del nostro vulcano preferito, ormai non più semplice simbolo da cartolina ma presenza quasi tangibile: anche se in realtà non è poi imponente, per noi che abitiamo alle sue pendici il Vesuvio è una vera e propria montagna torreggiante, cosi imperiosa, così… intima e così minacciosa ma al tempo stesso rassicurante. Così vicina da poterne distinguere i boschi (o meglio quello che ne è rimasto dopo gli incendi criminali dell’estate 2017); così vicina da ricordarci la nostra intelligenza nel realizzare veri e propri buchi neri abitativi a distanza di uno sputo dal Giorno del Giudizio. San Giorgio a Cremano risulta il terzo comune italiano per densità abitativa, in un podio purtroppo tutto napoletano, a testimonianza di quella longa manus edilizia che, dagli anni Sessanta, ha speculato senza ritegno nell’ambito di quella “sinergia” perversa tra Governo centrale, enti locali e camorra finalizzata alla lottizzazione delle risorse pubbliche per la costruzione del loro consenso elettorale. Comunque sia, nonostante lo squilibrio abitativo dei nostri tempi, San Giorgio a Cremano rimane una cittadina ordinata e gradevole, soprattutto impreziosita da una miriade di ville settecentesche nell’ambito di quello che potremmo chiamare il Miglio d’Oro “allargato”. In origine, infatti, il famoso Miglio d’Oro comprendeva solo quel miglio della vecchia Strada regia delle Calabrie, costellato di dorati agrumeti, che da Ercolano arrivava a Torre del Greco. Oggi è diventata il vero e proprio centro culturale di San Giorgio a Cremano tanto da essere conosciuta come il Palazzo della cultura vesuviana, ospitando concerti, manifestazioni, la biblioteca comunale e il premio Troisi dedicato ai giovani comici. A tal proposito, per chi non lo sapesse, San Giorgio a Cremano è anche la città natale di Massimo Troisi, una dei più amati e indimenticati volti del panorama culturale napoletano. Personalmente adoro la sua comicità fatta di tentennamenti, di incertezze, di timidezza ma anche di una certa dose di ingenua furbizia. Adoro la sua traboccante napoletanità, così forte grazie all’uso imperterrito della lingua napoletana (“io penso, io sogno in napoletano!”), e al suo saper disinnescare, con grande ironia, i continui luoghi comuni su Napoli e i napoletani. Successivamente questa definizione si è estesa impropriamente fino a comprendere anche Portici e San Giorgio nonché i quartieri di Barra e S. Giovanni a Teduccio, in quanto accomunati da una straordinaria concentrazione di raffinate ville e giardini rococò e neoclassici, frutto della decisione della nobilità napoletana di trasfersirsi vicino alla residenza estiva porticese di Carlo di Borbone, vuoi per il disinteressato piacere della sua vicinanza, vuoi per il fascino dell’antichità con gli allora recentissimi scavi di Ercolano. Tra le circa trenta ville sangiorgesi, una delle più importanti ed imponenti è Villa Vannucchi, la cui storia è alquanto particolare: da punto di riferimento per la nobiltà napoletana ai tempi di Gioacchino Murat, all’epoca ritrovo di feste, ricevimenti e scialacquamienti, a orto abusivo fino al restauro del 2006-2009, ad opera del Comune di San Giorgio, che l’ha riportata al suo antico splendore. Un’altra delle principali ville sangiorgesi, invece, è sicuramente Villa Bruno la quale, oltre alla ricchezza artistica ed architettonica, data la presenza di stili che vanno dal barocco al rococò al neoclassico, o all’utilizzo di diversi materiali vulcanici – tra cui spicca il tufo giallo napoletano –, ha ospitato anche la fonderia Righetti, celebre per aver fuso le due statue equestri di Carlo III di Spagna e di Ferdinando I delle Due Sicilie, oggi collocate in piazza Plebiscito a Napoli. Ed è a lui e ad un altro grande sangiorgese, Alighiero Noschese, che è stato dedicato il bellissimo murale all’interno della stazione, realizzato dagli artisti Rosk&Loste su iniziativa del sindaco Giorgio Zinno ed interamente finanziato dall’EAV di De Gregorio, nell’ambito dell’apertura delle sue stazioni alla street art. Anche chi scrive crede fortemente nelle potenzialità della street art nel valorizzare il paesaggio e le strutture urbane, in quanto rappresenta concretamente l’anello di congiunzione tra la città e le sub-culture da essa create, attingendo al nostro immaginario culturale ed esaltando al tempo stesso la creatività e modalità di espressione fuori dagli schemi. E cercando di rendere più nostri e più vicini gli spazi urbani. Purtroppo l’opera, come successo al murale di Totò a Piazza Garibaldi, che voleva non solo abbellire la struttura ma regalare il primo sorriso della giornata a tutti i passeggeri richiamando alla memoria due grandi della comicità nostrana, è stata vittima di un vero e proprio raid criminale che ne ha deturpato la bellezza, fortunatamente solo temporaneamente grazie ad un pronto intervento di ripristino. In questo modo, la difesa di un semplice murale, voluto fortemente per valorizzare alcuni dei simboli della nostra identità, si inserisce in una vera e propria guerra di civiltà contro i “nuovi” barbari in difesa di ciò che è nostro.
Avrò preso la Vesuviana a Santa Maria del Pozzo pochissime volte, forse si contano sulle dita di una sola mano, ma ricordo ancora vividamente l’ansia che mi assaliva ogni volta nel ritrovarmi, ragazzino timido ed esile, da solo lungo quei binari, aspettando impazientemente quel maledetto treno che non arrivava. Perché ogni minimo fruscio, ogni accenno di rumore poteva essere il preludio di un amichevole incontro con un simpatico pyramid head di silenthilliana memoria. Poche fermate della vesuviana hanno un alone di oscurità come quella di Santa Maria del Pozzo. In effetti, da tempo immemore Santa Maria del Pozzo rimane stabilmente nella parte alta delle classifiche, semiserie e non, delle stazioni vesuviane più inquietanti, con atmosfere degne del miglior Poe. Situata alla periferia della periferia, tra muri decadenti, stradine deserte e sottopassi oscuri, frequentemente in balìa dei vandali di turno o, ancora più spesso di drogati in cerca di un angolino tranquillo, essa rappresenta uno dei tanti esempi di quanto sia importante mantenere un certo livello di decoro della cosa pubblica e di quanto siano fondamentali un intervento e un controllo costanti dello Stato e dei suoi organi locali. Il significato di un bene pubblico, tra i quali rientrano una stazione, una strada o un parco urbano, infatti, non si esaurisce nella sua semplice destinazione d’uso, ma nel suo rappresentare un segno tangibile di un interesse attento dello Stato verso le esigenze della comunità e verso i limiti congeniti dei suddetti beni. Un bene pubblico, infatti, da un lato, influenza ed è a sua volta influenzato dal contesto in cui si trova (e qui ritroviamo la cara vecchia teoria della finestra rotta); dall’altro, è caratterizzato dalla cosiddetta non-escludibilità, cioè dal fatto che non è possibile escludere dalla sua fruizione coloro che, volontariamente o meno, non partecipano al suo costo. E proprio per questo, un bene pubblico è frequentemente soggetto al problema del free rider, cioè all’azione ora parassitaria, ora vandalica, di chi non contribuisce ai costi perché tanto non può esserne escluso e perché già c’è chi paga al suo posto. In altre parole, i beni pubblici possono diventare facile preda degli scrocconi. Si va dal non fare il biglietto (cosa vuoi che sia un biglietto? Tanto ci sarà sempre qualche pollo che lo paga) al non sparecchiare la tavola dopo pranzo (tanto c’è la mamma che pulisce per tutti e domani mangerò lo stesso) fino al non partecipare attivamente agli scioperi perché tanto ce ne sono altri cento a lottare al posto nostro. Purtroppo, però, spesso sfugge il fatto che se tutti si comportassero allo stesso modo, non ci sarebbero più servizi di cui usufruire: non avremmo più un treno efficiente, non avremmo la cena o saremmo ancora costretti a lavorare come muli per dodici ore al giorno (anche se manca poco al ritorno della schiavitù). Il bello è che proprio a causa della non escludibilità degli scrocconi, non ci sarà nessun privato razionale a realizzare tali opere pubbliche, dato che l’eventuale investitore non potrà appropriarsi in maniera esclusiva dei benefici del suo investimento. Chi altro potrebbe allora impegnarsi per la realizzazione di opere pubbliche? E perché proprio lo Stato? Perché esso è l’unica entità in grado di realizzare investimenti dai benefici a medio-lungo termine, anche ricorrendo all’indebitamento e a prescindere da un eventuale profitto a breve termine. inoltre, tali investimenti avrebbero anche l’effetto benefico di stimolare un mercato in piena deflazione e recessione, andando a rimpiazzare gli scarsi investimenti privati e a sostenere una domanda altrimenti debole. Tuttavia, il pensiero neoliberista dominante ha ben presto stigmatizzato il benché minimo intervento attivo dello Stato nell’economia di un Paese, con un pauroso taglio ai fondi destinati alla cura e allo sviluppo del patrimonio pubblico. Al Sud, poi, è tagliare è ancora più facile: essendo notoriamente dei lassisti, dei “mangiapane a tradimento”, è cosa buona e giusta abbondare con i tagli ai bilanci e con la sottrazione dei fondi europei. Oppure ha spinto fortemente per una privatizzazione da realizzarsi a tutti i costi, sulla base dell’assunto che le pure forze di mercato garantirebbero, per virtù naturali, il miglior risultato possibile. In realtà i tagli non hanno fatto altro che aggravare la situazione, perché le varie infrastrutture sono state lasciate a se stesse in mancanza di fondi, mentre le privatizzazioni spesso hanno portato ad inefficienze e a inique concentrazioni di ricchezza. Se poi aggiungiamo che molte opere si trovano in quartieri difficili, afflitti a loro volta da elevata povertà, disoccupazione ed illegalità, è estremamente probabile l’innesco di veri e propri circoli viziosi di degrado ed abbandono. Purtroppo i fenomeni sociali sono cumulativi, cioè tendono a rafforzarsi e a sedimentarsi in assenza di spinte correttive che, necessariamente, devono provenire dall’unica forza in grado di imporsi sulla perversa razionalità degli attori, ossia lo Stato. Ma dalle nostre parti lo Stato spesso non c’è, e se c’è non assiste perché impegnato a mangiare. E quindi fa rabbia, tanta rabbia, vedere il nostro patrimonio infrastrutturale abbandonato a se stesso e diventare spesso sinonimo di inquietudine e paura, di fatto consegnando i punti nevralgici del nostro stare insieme nelle mani di vandali e disperati di vario genere, e perdendo così il nostro diritto alla sicurezza e ad un viaggio senza paura.
Superato San Giovanni a Teduccio, la nostra prossima fermata è Barra. Le vicende storiche di questo quartiere ricalcano quelle di San Giovanni a Teduccio, grazie anche alla stretta prossimità geografica: anch’esso, infatti, passa da luogo di dimora di ricchi romani alle prese con i loro festini lontano dal chiasso di Napoli a territorio abbandonato e paludoso, da successivo raggruppamento di chiese e casali per poi essere destinato ad ospitare, dagli inizi del Novecento, la futura area industirale di Napoli Est. Tuttavia, una delle peculiarità di Barra è che questo resta uno degli luoghi in cui è possibile ancora trovare un’eredità concreta e attuale della religiosità popolare napoletana, incentrata su santi protettori, riti e tradizioni dalle origini molto antiche, nonostante il fatto che, oggigiorno, l’aspetto religioso abbia lasciato il passo a quello più squisitamente folkloristico. Sicuramente, San Gennaro è una delle figure più importanti dell’immaginario napoletano, il santo protettore per antonomasia, al quale il popolo napoletano, nel suo complesso, è legato da un forte amore e da una venerazione viscerale. Ciò nonostante, egli non è l’unico tramite con l’aldilà al quale cercare grazie e conforto, anzi, ogni città (o quartiere, in questo caso) ha un suo personale santo protettore. E l’immaginario religioso-folkloristico di Barra non è da meno, con la sua venerazione per Sant’Anna ma soprattutto per una festa molto particolare e sentita, la Festa dei Gigli, una delle feste più antiche della tradizione campana che, a Barra, si svolge ogni anno durante l’ultima domenica di settembre.[1] La Festa dei Gigli è qualcosa di incredibile, da vedere e vivere assolutamente in prima persona perché le parole non possono pienamente descrivere il coinvolgimento che si respira nei veicoli dei vari rioni, la musica continua che riecheggia altissima tra le strade, la spensieratezza e la voglia di far festa. E, soprattutto, lo spettacolo di queste costruzioni altissime e decorate vistosamente, i gigli, che ondeggiano e ballano sulle spalle di centinaia di cullatori a tal punto da farvi venire il mal di mare. Immaginate: undici maestosti obelischi di legno, uno per ogni paranza, alti 25 metri e pesanti più di 20 tonnellate, sorretti da un esercito di cullatori,[2] che se ne vanno in giro per le strade del quartiere a ritmo di musica, immersi in un vero e proprio mare di persone e in un chiasso assordante, fatto di canti e dalle urla della gente che incita e sprona il proprio giglio dando forza agli alzatori, in una gara puramente simbolica ma che comunque offre vanto e ammirazione per il giglio più bello e più coinvolgente. Tanti sono gli aspetti interessanti della ballata dei Gigli, dall’enorme partecipazione popolare all’incredibile sincronia dei movimenti dei cullatori sotto le direttive dei rispettivi caporali, dalla progettazione all’assemblaggio del giglio, per mezzo di associazioni in cui il sapere viene tramandato da padre in figlio.[3] Inoltre, finalmente, dal 2016 si è deciso esplicitamente di stringere la corda contro le macroscopiche inflitrazioni camorristiche nell’organizzazione della Festa, dalle sponsorizzazioni dirette dei Clan a collette sospette, fino a canzoni dai filo-camorristiche e dedicate alle donne della camorra.[4] Barra, infatti, rimane un quartiere difficile, dove è forte la presenza della camorra nella vita quotidiana e soprattutto nei momenti di aggregazione popolare in cui è facile proliferare, finendo con l’appropriarsi di una tradizione popolare allontanando chi, consapevole dell’oscura presenza, ha preferito tenersi al largo dai festeggimenti. Tuttavia, il Comune di Napoli ha deciso di giocare un ruolo più attivo, sia sponsorizzando in prima persona l’evento, sia mobilitando un maggior numero di forze dell’ordine, tanto per il mantenimento dell’ordine pubblico quanto per una scrupolosa analisi degli organigrammi delle associazioni costruttrici dei gigli. Intervento che d’ora in poi potrà giocare un ruolo fondamentale nel recupero e nella valorizzazione di tradizioni antiche ma con importanti capacità aggregative. Il filo portante del nostro viaggio, per quanto emerso finora, è la ricerca del bello inteso come cura del territorio e della comunità, come presenza attiva volta a ridare senso e dignità laddove il sudiciume della violenza (industriale, ambientale, architettonica, fisica) e dell’illegalità hanno eroso i colori della realtà. In questo senso, il lavoro da fare a Barra è ancora enorme. Barra, infatti, nonostante le apparenze, racchiude in sé un patrimonio storico-architettonico ricchissimo: situata sull’antica via delle Calabrie, quest’area è tuttora la sede di ben 122 ville vesuviane settecentesche, gran parte delle quali realizzate dai più importanti architetti del tempo, come Sanfelice, Fuga e Vanvitelli. In pratica, sono le ville del cosiddetto Miglio d’Oro napoletano, che da San Giovanni-Barra fino a Torre del Greco è costellato di splendide residenze nobiliari grazie alle quali l’aristocrazia napoletana poteva sentirsi più vicina al proprio sovrano nelle sortite di quest’ultimo alla reggia di Portici e agli scavi di Ercolano. Purtroppo è un colpo allo stomaco vedere gran parte di esse travolte dall’incuria, come villa Letizia, villa Salvetti o villa Bisignano, maestosi mausolei di un passato di fasti lontani, ormai abbandonati nel silenzio. Purtroppo, il recupero e il reintegro di questi lasciti del passato non può avvenire senza un convinto intervento pubblico, magari con un intervento ad ampio raggio che coinvolga anche tutti gli altri Comuni del Miglio d’Oro, o magari concedendo l’utilizzo dei locali per scopi associativi e culturali. Tutto, in altri termini, è condizionato da cosa lo Stato, nelle varie forme di Comuni, Province e Regioni, ha intenzione di fare per salvaguardare la ricchezza materiale e immateriale di queste realtà. O meglio, da come lo Stato intende considerare se stesso, cioè se rapinatore e complice delle bande criminali o valorizzatore. E da come lo Stato intende pensare questi luoghi, cioè se semplici bacini di voti e promesse elettorali o futura locomotiva per l’intero Paese. Ma se un attivo e mirato intervento pubblico può, in futuro, creare circoli virtuosi e connessioni positive all’interno della comunità, grazie al ripristino della legalità e alla cura (e successivo re-inserimento attivo) del patrimonio storico, dall’altro ci preme sottolineare che già vi sono alcuni esempi positivi che da tempo costituiscono un argine contro le insidie della strada e una cultura della sopraffazione, come la piscina dello Sporting Club Napoli...
Superata via Gianturco, la prossima fermata della nostra cara vecchia Vesuviana è San Giovanni a Teduccio.Sarà una fermata un po’ sui generis con alcune digressioni storiche, dal momento che la sua evoluzione è stata fortemente influenzata dai processi di industrializzazione ed urbanizzazione, innescati delle scelte economico-urbanistiche della città di Napoli. San Giovanni a Teduccio, infatti, al pari di tante periferie, o meglio archeologie, industriali, è tuttora afflitto da gravi problemi di degrado, ma non a causa di una presunta “criminalità innata” dei suoi abitanti quanto, piuttosto, per essere stata vittima del abbraccio mortale di politiche urbanistiche speculative ed il parallelo declino della cintura industriale napoletana.Infatti, da terreno paludoso ad est di Napoli a raggruppamento di chiese e casali, con la legge dell’8 luglio 1904, detta il Risorgimento economico di Napoli, e soprattutto con il successivo Piano Regolatore Generale del 1914 ad opera dell’ing. F. De Simone, San Giovanni a Teduccio cambia radicalmente volto: nell’ambito della nuova compartimentazione della città, i terreni orientali furono dapprima destinati genericamente all’edificazione di caseggiati industriali a regime di deposito franco, per poi essere espressamente assegnati ad ospitare le future industrie locali. Questa svolta, del resto, fu favorita anche dall’imminente inglobamento di San Giovanni a Teduccio nella città di Napoli: fino al 1925, infatti, il futuro quartiere era ancora un comune autonomo, almeno fin quando il sogno mussoliniano di creare grandi metropoli italiane, e quindi una Grande Napoli, non portò all’incorporazione di molte entità limitrofe come Chiaiano, Secondigliano, San Pietro a Patierno, Soccavo, Pianura, Barra, Ponticelli e, ovviamente, San Giovanni a Teduccio.I piani regolatori si susseguono ma la funzione principale di San Giovanni a Teduccio, come della periferia settentrionale, rimane sempre quella di bacino industriale napoletano, ferrovia inclusa. La guerra lascia una città distrutta dai bombardamenti, causando un numero enorme di sfollati, di abitazioni distrutte e relativo sovraffollamento delle poche strutture rimaste in piedi.Purtroppo, nessun intervento pubblico riesce a razionalizzare il processo di ricostruzione: anzi, il piano regolatore generale del 1958 darà luogo ad un selvaggio e caotico processo di speculazioni edilizie, caratterizzate da pesanti collusioni edilizio-politiche e dal crollo della qualità dei modelli insediativi residenziali. È l’epoca del Sacco di Napoli , della “reggenza”del Commissario Correra e della longa manus di Mario Ottieri, la cui spregiudicatezza ben si sposava con il desiderio della popolazione di nuove abitazioni dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale.Il risultato finale è sconvolgente e dagli effetti ancora attuale: un’espansione edilizia selvaggia e senza controllo non solo oltre i limiti orografici dei terreni, ma che ha favorito la creazione di veri e propri ghetti, ossiai rioni pubblici, veri e propri feudi isolati e autonomi ben presto diventati culle di illegalità e micro e macro-criminalità. Ma all’orizzonte c’è un altro spartiacque: l’Irpinia e la Basilicata sembrano lontane, tuttavia il devastante terremoto del 1980 farà sentire comunque i suoi effetti perversi.Anche San Giovanni a Teduccio, infatti, verrà interessato dal cosiddetto Piano delle Periferie, un programma di edilizia pubblica, varato al fine di fronteggiare l’emergenza sfollati, che porterà alla creazione di un nuovo “macro-quartiere” autonomo e autosufficiente: in poche parole, il progetto Taverna del Ferro, meglio conosciuto come il Bronx.Umberto Eco, tramite uno dei suoi personaggi più riusciti, scriveva che l’odore dell’incenso spesso si confonde con quello dello zolfo.In effetti, il progetto Taverna del Ferro era animato da buone intenzioni, ossia dare agli sfollati case nuove e dignitose, rafforzando al tempo stesso i legami comunitari.Il suo successo avrebbe potuto e dovuto contare su tre fattori: l’autosufficienza, grazieai tanti servizi teoricamente presenti; la facilità di accesso ed uscita dal complesso, attraverso un numero sufficiente di varchi, a vari livelli; la capacità aggregativa risultante dalla compattezza degli spazi. In realtà, i locali destinati a pizzerie, negozi, centri per anziani sono stati adibiti a covi di banditi, garage per auto rubate, angoli di spaccio: la densità abitativa, la qualità degli assegnatari e la qualità dei prefabbricati, alla fine, si sono rivelati elementi in grado di innescare un circolo vizioso di degrado e criminalità, analogamentealle Vele di Scampia a Secondigliano.In breve, da possibile centro aggregante, Taverna del Ferro è diventato uno degli emblemi del processo di appropriazione degli spazi pubblici da parte della criminalità locale. Anche oggi, purtroppo, San Giovanni a Teduccio appare un grande cimitero industriale, tra capannoni dismessi, torri e ciminiere, simboli di lavoro, sacrifici e al tempo stesso di sfruttamento del territorio.Territorio che per molto, troppo sembra essere stato dimenticato e marchiato, quasi come a voler rinnegare un passato di errori ed orrori.Territorio che rimaneva legato a Napoli da un filo sottile ma robusto, la Circumvesuviana, che nonostante tutto ha sempre continuato a tenere insieme il centro ad una delle sue periferie più critiche.Tuttavia, come per via Gianturco, anche qui ci sono dei segnali di ripresa, grazie ad investimenti pubblici mirati ad una piena riconversione dell’area all’insegna della cultura, dell’istruzione e dell’arte. Il vecchio stabilmento Cirio, infatti, è stato totalmente riqualificato per ospitare il nuovo Polo scientifico-universitario di Napoli Est sotto l’egida dell’Università di Napoli Federico II e del CNR, cui ha fatto seguito anche il prolungamento della linea 2 della Metropolitana di Napoli al fine di agevolarne l’afflusso di studenti e ricercatori.Un vero e proprio circolo virtuoso che non tarderà a manifestare i suoi effetti positivi sul quartiere, stimolando una maggiore presenza di servizi, di iniziative locali, di cura del territorio. Tutte potenzialità sulle quali ha deciso di scommettere anche la Apple, realizzandovi addirittura la prima Developer Academyin Europa.Ma nessun intervento dall’alto può portare ad un vero cambiamento se non è sentito tale anche dal basso.E in quartiere così martoriato dalla bruttezza industriale, questo cambiamento non prescindere dalla vittoria dell’arte sul ferro, dei colori sul grigio, della sensibilità artistica sull’indifferenza della rassegnazione. E anche a San Giovanni a Teduccio, come a Ponticelli, Jorit Agoch con i suoi graffiti sta cercando di trasformare queste cattedrali di ferro e ruggine in tele dove dipingere il nostro bisogno di esprimerci, di affermare che esistiamo.Graffiti per annullare le compartimentazioni tradizionali della società, per evitare il confino della bellezza in spazi prestabiliti, per fare della città un museo...