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  • I pirati della circumvesuviana

    Entrata free – Santa Maria del pozzo

    Avrò preso la Vesuviana a Santa Maria del Pozzo pochissime volte, forse si contano sulle dita di una sola mano, ma ricordo ancora vividamente l’ansia che mi assaliva ogni volta nel ritrovarmi, ragazzino timido ed esile, da solo lungo quei binari, aspettando impazientemente quel maledetto treno che non arrivava. Perché ogni minimo fruscio, ogni accenno di rumore poteva essere il preludio di un amichevole incontro con un simpatico pyramid head di silenthilliana memoria. Poche fermate della vesuviana hanno un alone di oscurità come quella di Santa Maria del Pozzo. In effetti, da tempo immemore Santa Maria del Pozzo rimane stabilmente nella parte alta delle classifiche, semiserie e non, delle stazioni vesuviane più inquietanti, con atmosfere degne del miglior Poe. Situata alla periferia della periferia, tra muri decadenti, stradine deserte e sottopassi oscuri, frequentemente in balìa dei vandali di turno o, ancora più spesso di drogati in cerca di un angolino tranquillo, essa rappresenta uno dei tanti esempi di quanto sia importante mantenere un certo livello di decoro della cosa pubblica e di quanto siano fondamentali un intervento e un controllo costanti dello Stato e dei suoi organi locali. Il significato di un bene pubblico, tra i quali rientrano una stazione, una strada o un parco urbano, infatti, non si esaurisce nella sua semplice destinazione d’uso, ma nel suo rappresentare un segno tangibile di un interesse attento dello Stato verso le esigenze della comunità e verso i limiti congeniti dei suddetti beni. Un bene pubblico, infatti, da un lato, influenza ed è a sua volta influenzato dal contesto in cui si trova (e qui ritroviamo la cara vecchia teoria della finestra rotta); dall’altro, è caratterizzato dalla cosiddetta non-escludibilità, cioè dal fatto che non è possibile escludere dalla sua fruizione coloro che, volontariamente o meno, non partecipano al suo costo. E proprio per questo, un bene pubblico è frequentemente soggetto al problema del free rider, cioè all’azione ora parassitaria, ora vandalica, di chi non contribuisce ai costi perché tanto non può esserne escluso e perché già c’è chi paga al suo posto. In altre parole, i beni pubblici possono diventare facile preda degli scrocconi. Si va dal non fare il biglietto (cosa vuoi che sia un biglietto? Tanto ci sarà sempre qualche pollo che lo paga) al non sparecchiare la tavola dopo pranzo (tanto c’è la mamma che pulisce per tutti e domani mangerò lo stesso) fino al non partecipare attivamente agli scioperi perché tanto ce ne sono altri cento a lottare al posto nostro. Purtroppo, però, spesso sfugge il fatto che se tutti si comportassero allo stesso modo, non ci sarebbero più servizi di cui usufruire: non avremmo più un treno efficiente, non avremmo la cena o saremmo ancora costretti a lavorare come muli per dodici ore al giorno (anche se manca poco al ritorno della schiavitù). Il bello è che proprio a causa della non escludibilità degli scrocconi, non ci sarà nessun privato razionale a realizzare tali opere pubbliche, dato che l’eventuale investitore non potrà appropriarsi in maniera esclusiva dei benefici del suo investimento. Chi altro potrebbe allora impegnarsi per la realizzazione di opere pubbliche? E perché proprio lo Stato? Perché esso è l’unica entità in grado di realizzare investimenti dai benefici a medio-lungo termine, anche ricorrendo all’indebitamento e a prescindere da un eventuale profitto a breve termine. inoltre, tali investimenti avrebbero anche l’effetto benefico di stimolare un mercato in piena deflazione e recessione, andando a rimpiazzare gli scarsi investimenti privati e a sostenere una domanda altrimenti debole. Tuttavia, il pensiero neoliberista dominante ha ben presto stigmatizzato il benché minimo intervento attivo dello Stato nell’economia di un Paese, con un pauroso taglio ai fondi destinati alla cura e allo sviluppo del patrimonio pubblico. Al Sud, poi, è tagliare è ancora più facile: essendo notoriamente dei lassisti, dei “mangiapane a tradimento”, è cosa buona e giusta abbondare con i tagli ai bilanci e con la sottrazione dei fondi europei. Oppure ha spinto fortemente per una privatizzazione da realizzarsi a tutti i costi, sulla base dell’assunto che le pure forze di mercato garantirebbero, per virtù naturali, il miglior risultato possibile. In realtà i tagli non hanno fatto altro che aggravare la situazione, perché le varie infrastrutture sono state lasciate a se stesse in mancanza di fondi, mentre le privatizzazioni spesso hanno portato ad inefficienze e a inique concentrazioni di ricchezza. Se poi aggiungiamo che molte opere si trovano in quartieri difficili, afflitti a loro volta da elevata povertà, disoccupazione ed illegalità, è estremamente probabile l’innesco di veri e propri circoli viziosi di degrado ed abbandono. Purtroppo i fenomeni sociali sono cumulativi, cioè tendono a rafforzarsi e a sedimentarsi in assenza di spinte correttive che, necessariamente, devono provenire dall’unica forza in grado di imporsi sulla perversa razionalità degli attori, ossia lo Stato. Ma dalle nostre parti lo Stato spesso non c’è, e se c’è non assiste perché impegnato a mangiare. E quindi fa rabbia, tanta rabbia, vedere il nostro patrimonio infrastrutturale abbandonato a se stesso e diventare spesso sinonimo di inquietudine e paura, di fatto consegnando i punti nevralgici del nostro stare insieme nelle mani di vandali e disperati di vario genere, e perdendo così il nostro diritto alla sicurezza e ad un viaggio senza paura.

  • La ballata dei gigli- Barra

    Superato San Giovanni a Teduccio, la nostra prossima fermata è Barra. Le vicende storiche di questo quartiere ricalcano quelle di San Giovanni a Teduccio, grazie anche alla stretta prossimità geografica: anch’esso, infatti, passa da luogo di dimora di ricchi romani alle prese con i loro festini lontano dal chiasso di Napoli a territorio abbandonato e paludoso, da successivo raggruppamento di chiese e casali per poi essere destinato ad ospitare, dagli inizi del Novecento, la futura area industirale di Napoli Est. Tuttavia, una delle peculiarità di Barra è che questo resta uno degli luoghi in cui è possibile ancora trovare un’eredità concreta e attuale della religiosità popolare napoletana, incentrata su santi protettori, riti e tradizioni dalle origini molto antiche, nonostante il fatto che, oggigiorno, l’aspetto religioso abbia lasciato il passo a quello più squisitamente folkloristico. Sicuramente, San Gennaro è una delle figure più importanti dell’immaginario napoletano, il santo protettore per antonomasia, al quale il popolo napoletano, nel suo complesso, è legato da un forte amore e da una venerazione viscerale. Ciò nonostante, egli non è l’unico tramite con l’aldilà al quale cercare grazie e conforto, anzi, ogni città (o quartiere, in questo caso) ha un suo personale santo protettore. E l’immaginario religioso-folkloristico di Barra non è da meno, con la sua venerazione per Sant’Anna ma soprattutto per una festa molto particolare e sentita, la Festa dei Gigli, una delle feste più antiche della tradizione campana che, a Barra, si svolge ogni anno durante l’ultima domenica di settembre.[1] La Festa dei Gigli è qualcosa di incredibile, da vedere e vivere assolutamente in prima persona perché le parole non possono pienamente descrivere il coinvolgimento che si respira nei veicoli dei vari rioni, la musica continua che riecheggia altissima tra le strade, la spensieratezza e la voglia di far festa. E, soprattutto, lo spettacolo di queste costruzioni altissime e decorate vistosamente, i gigli, che ondeggiano e ballano sulle spalle di centinaia di cullatori a tal punto da farvi venire il mal di mare. Immaginate: undici maestosti obelischi di legno, uno per ogni paranza, alti 25 metri e pesanti più di 20 tonnellate, sorretti da un esercito di cullatori,[2] che se ne vanno in giro per le strade del quartiere a ritmo di musica, immersi in un vero e proprio mare di persone e in un chiasso assordante, fatto di canti e dalle urla della gente che incita e sprona il proprio giglio dando forza agli alzatori, in una gara puramente simbolica ma che comunque offre vanto e ammirazione per il giglio più bello e più coinvolgente. Tanti sono gli aspetti interessanti della ballata dei Gigli, dall’enorme partecipazione popolare all’incredibile sincronia dei movimenti dei cullatori sotto le direttive dei rispettivi caporali, dalla progettazione all’assemblaggio del giglio, per mezzo di associazioni in cui il sapere viene tramandato da padre in figlio.[3] Inoltre, finalmente, dal 2016 si è deciso esplicitamente di stringere la corda contro le macroscopiche inflitrazioni camorristiche nell’organizzazione della Festa, dalle sponsorizzazioni dirette dei Clan a collette sospette, fino a canzoni dai filo-camorristiche e dedicate alle donne della camorra.[4] Barra, infatti, rimane un quartiere difficile, dove è forte la presenza della camorra nella vita quotidiana e soprattutto nei momenti di aggregazione popolare in cui è facile proliferare, finendo con l’appropriarsi di una tradizione popolare allontanando chi, consapevole dell’oscura presenza, ha preferito tenersi al largo dai festeggimenti. Tuttavia, il Comune di Napoli ha deciso di giocare un ruolo più attivo, sia sponsorizzando in prima persona l’evento, sia mobilitando un maggior numero di forze dell’ordine, tanto per il mantenimento dell’ordine pubblico quanto per una scrupolosa analisi degli organigrammi delle associazioni costruttrici dei gigli. Intervento che d’ora in poi potrà giocare un ruolo fondamentale nel recupero e nella valorizzazione di tradizioni antiche ma con importanti capacità aggregative. Il filo portante del nostro viaggio, per quanto emerso finora, è la ricerca del bello inteso come cura del territorio e della comunità, come presenza attiva volta a ridare senso e dignità laddove il sudiciume della violenza (industriale, ambientale, architettonica, fisica) e dell’illegalità hanno eroso i colori della realtà. In questo senso, il lavoro da fare a Barra è ancora enorme. Barra, infatti, nonostante le apparenze, racchiude in sé un patrimonio storico-architettonico ricchissimo: situata sull’antica via delle Calabrie, quest’area è tuttora la sede di ben 122 ville vesuviane settecentesche, gran parte delle quali realizzate dai più importanti architetti del tempo, come Sanfelice, Fuga e Vanvitelli. In pratica, sono le ville del cosiddetto Miglio d’Oro napoletano, che da San Giovanni-Barra fino a Torre del Greco è costellato di splendide residenze nobiliari grazie alle quali l’aristocrazia napoletana poteva sentirsi più vicina al proprio sovrano nelle sortite di quest’ultimo alla reggia di Portici e agli scavi di Ercolano. Purtroppo è un colpo allo stomaco vedere gran parte di esse travolte dall’incuria, come villa Letizia, villa Salvetti o villa Bisignano, maestosi mausolei di un passato di fasti lontani, ormai abbandonati nel silenzio. Purtroppo, il recupero e il reintegro di questi lasciti del passato non può avvenire senza un convinto intervento pubblico, magari con un intervento ad ampio raggio che coinvolga anche tutti gli altri Comuni del Miglio d’Oro, o magari concedendo l’utilizzo dei locali per scopi associativi e culturali. Tutto, in altri termini, è condizionato da cosa lo Stato, nelle varie forme di Comuni, Province e Regioni, ha intenzione di fare per salvaguardare la ricchezza materiale e immateriale di queste realtà. O meglio, da come lo Stato intende considerare se stesso, cioè se rapinatore e complice delle bande criminali o valorizzatore. E da come lo Stato intende pensare questi luoghi, cioè se semplici bacini di voti e promesse elettorali o futura locomotiva per l’intero Paese. Ma se un attivo e mirato intervento pubblico può, in futuro, creare circoli virtuosi e connessioni positive all’interno della comunità, grazie al ripristino della legalità e alla cura (e successivo re-inserimento attivo) del patrimonio storico, dall’altro ci preme sottolineare che già vi sono alcuni esempi positivi che da tempo costituiscono un argine contro le insidie della strada e una cultura della sopraffazione, come la piscina dello Sporting Club Napoli...

  • Fotografia Oscar centro

    Un grande cimitero industriale – San Giovanni a Teduccio

    Superata via Gianturco, la prossima fermata della nostra cara vecchia Vesuviana è San Giovanni a Teduccio.Sarà una fermata un po’ sui generis con alcune digressioni storiche, dal momento che la sua evoluzione è stata fortemente influenzata dai processi di industrializzazione ed urbanizzazione, innescati delle scelte economico-urbanistiche della città di Napoli. San Giovanni a Teduccio, infatti, al pari di tante periferie, o meglio archeologie, industriali, è tuttora afflitto da gravi problemi di degrado, ma non a causa di una presunta “criminalità innata” dei suoi abitanti quanto, piuttosto, per essere stata vittima del abbraccio mortale di politiche urbanistiche speculative ed il parallelo declino della cintura industriale napoletana.Infatti, da terreno paludoso ad est di Napoli a raggruppamento di chiese e casali, con la legge dell’8 luglio 1904, detta il Risorgimento economico di Napoli, e soprattutto con il successivo Piano Regolatore Generale del 1914 ad opera dell’ing. F. De Simone, San Giovanni a Teduccio cambia radicalmente volto: nell’ambito della nuova compartimentazione della città, i terreni orientali furono dapprima destinati genericamente all’edificazione di caseggiati industriali a regime di deposito franco, per poi essere espressamente assegnati ad ospitare le future industrie locali. Questa svolta, del resto, fu favorita anche dall’imminente inglobamento di San Giovanni a Teduccio nella città di Napoli: fino al 1925, infatti, il futuro quartiere era ancora un comune autonomo, almeno fin quando il sogno mussoliniano di creare grandi metropoli italiane, e quindi una Grande Napoli, non portò all’incorporazione di molte entità limitrofe come Chiaiano, Secondigliano, San Pietro a Patierno, Soccavo, Pianura, Barra, Ponticelli e, ovviamente, San Giovanni a Teduccio.I piani regolatori si susseguono ma la funzione principale di San Giovanni a Teduccio, come della periferia settentrionale, rimane sempre quella di bacino industriale napoletano, ferrovia inclusa. La guerra lascia una città distrutta dai bombardamenti, causando un numero enorme di sfollati, di abitazioni distrutte e relativo sovraffollamento delle poche strutture rimaste in piedi.Purtroppo, nessun intervento pubblico riesce a razionalizzare il processo di ricostruzione: anzi, il piano regolatore generale del 1958 darà luogo ad un selvaggio e caotico processo di speculazioni edilizie, caratterizzate da pesanti collusioni edilizio-politiche e dal crollo della qualità dei modelli insediativi residenziali. È l’epoca del Sacco di Napoli , della “reggenza”del Commissario Correra e della longa manus di Mario Ottieri, la cui spregiudicatezza ben si sposava con il desiderio della popolazione di nuove abitazioni dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale.Il risultato finale è sconvolgente e dagli effetti ancora attuale: un’espansione edilizia selvaggia e senza controllo non solo oltre i limiti orografici dei terreni, ma che ha favorito la creazione di veri e propri ghetti, ossiai rioni pubblici, veri e propri feudi isolati e autonomi ben presto diventati culle di illegalità e micro e macro-criminalità. Ma all’orizzonte c’è un altro spartiacque: l’Irpinia e la Basilicata sembrano lontane, tuttavia il devastante terremoto del 1980 farà sentire comunque i suoi effetti perversi.Anche San Giovanni a Teduccio, infatti, verrà interessato dal cosiddetto Piano delle Periferie, un programma di edilizia pubblica, varato al fine di fronteggiare l’emergenza sfollati, che porterà alla creazione di un nuovo “macro-quartiere” autonomo e autosufficiente: in poche parole, il progetto Taverna del Ferro, meglio conosciuto come il Bronx.Umberto Eco, tramite uno dei suoi personaggi più riusciti, scriveva che l’odore dell’incenso spesso si confonde con quello dello zolfo.In effetti, il progetto Taverna del Ferro era animato da buone intenzioni, ossia dare agli sfollati case nuove e dignitose, rafforzando al tempo stesso i legami comunitari.Il suo successo avrebbe potuto e dovuto contare su tre fattori: l’autosufficienza, grazieai tanti servizi teoricamente presenti; la facilità di accesso ed uscita dal complesso, attraverso un numero sufficiente di varchi, a vari livelli; la capacità aggregativa risultante dalla compattezza degli spazi. In realtà, i locali destinati a pizzerie, negozi, centri per anziani sono stati adibiti a covi di banditi, garage per auto rubate, angoli di spaccio: la densità abitativa, la qualità degli assegnatari e la qualità dei prefabbricati, alla fine, si sono rivelati elementi in grado di innescare un circolo vizioso di degrado e criminalità, analogamentealle Vele di Scampia a Secondigliano.In breve, da possibile centro aggregante, Taverna del Ferro è diventato uno degli emblemi del processo di appropriazione degli spazi pubblici da parte della criminalità locale. Anche oggi, purtroppo, San Giovanni a Teduccio appare un grande cimitero industriale, tra capannoni dismessi, torri e ciminiere, simboli di lavoro, sacrifici e al tempo stesso di sfruttamento del territorio.Territorio che per molto, troppo sembra essere stato dimenticato e marchiato, quasi come a voler rinnegare un passato di errori ed orrori.Territorio che rimaneva legato a Napoli da un filo sottile ma robusto, la Circumvesuviana, che nonostante tutto ha sempre continuato a tenere insieme il centro ad una delle sue periferie più critiche.Tuttavia, come per via Gianturco, anche qui ci sono dei segnali di ripresa, grazie ad investimenti pubblici mirati ad una piena riconversione dell’area all’insegna della cultura, dell’istruzione e dell’arte. Il vecchio stabilmento Cirio, infatti, è stato totalmente riqualificato per ospitare il nuovo Polo scientifico-universitario di Napoli Est sotto l’egida dell’Università di Napoli Federico II e del CNR, cui ha fatto seguito anche il prolungamento della linea 2 della Metropolitana di Napoli al fine di agevolarne l’afflusso di studenti e ricercatori.Un vero e proprio circolo virtuoso che non tarderà a manifestare i suoi effetti positivi sul quartiere, stimolando una maggiore presenza di servizi, di iniziative locali, di cura del territorio. Tutte potenzialità sulle quali ha deciso di scommettere anche la Apple, realizzandovi addirittura la prima Developer Academyin Europa.Ma nessun intervento dall’alto può portare ad un vero cambiamento se non è sentito tale anche dal basso.E in quartiere così martoriato dalla bruttezza industriale, questo cambiamento non prescindere dalla vittoria dell’arte sul ferro, dei colori sul grigio, della sensibilità artistica sull’indifferenza della rassegnazione. E anche a San Giovanni a Teduccio, come a Ponticelli, Jorit Agoch con i suoi graffiti sta cercando di trasformare queste cattedrali di ferro e ruggine in tele dove dipingere il nostro bisogno di esprimerci, di affermare che esistiamo.Graffiti per annullare le compartimentazioni tradizionali della società, per evitare il confino della bellezza in spazi prestabiliti, per fare della città un museo...

  • Piazza Garibaldi

    Il finto capolinea – Napoli Piazza Garibaldi

    Napoli Piazza Garibaldi – Stazione della Circumvesuviana Se una città si giudica soprattutto per lo stato delle infrastrutture, la stazione di Napoli – Piazza Garibaldi – , potrebbe tranquillamente essere presa come cartina di tornasole della ripresa del capoluogo campano. Fino a qualche anno fa, infatti, la piazza e la relativa stazione ferroviaria versavano in condizioni palesemente critiche, al limite del degrado. Era una stazione con ben pochi comfort, immersa nel traffico più congestionato e caotico possibile, popolata da personaggi abbastanza inquietanti alla ricerca continua dello spicciolo facile. E l’altra metà della piazza, dopo la statua di Garibaldi per intenderci, era peggio. Tutto il complesso, in breve, non dava affatto una bella immagine della città e, da turista, la prima impressione sarebbe stata, per usare un eufemismo, alquanto deludente. Proprio per un passato recente così negativo, è doveroso evidenziare, invece, l’enorme lavoro di riqualificazione della stazione e della zona prospicente: ovviamente rimangono molti limiti, tra traffico ed insistenti venditori di accendini e calzini ambulanti, ma almeno sono stati abbandonate le vesti della sciatteria e del degrado a favore di un look più moderno, pulito ed ordinato. Negozi, bar, librerie, ristoranti, nonché una nuova galleria commerciale, rendono l’attesa più godibile e danno un senso di maggior sicurezza e piacere nel girare liberamente la zona. Personalmente, investo sempre volentieri qualche minuto nella Feltrinelli lì vicino, passeggiando tra gli scaffali alla ricerca di un titolo interessante. Si articola su due piani e per chi non ha necessità troppo di nicchia o specialistiche ha un’ottima scelta. Nei dintorni è pieno di ottimi bar “da aeroporto”, ma sinceramente vi consiglio di gustare qualche bella pizza a portafoglio o un bel calzone fritto nelle innumerevoli pizzerie presenti nei dintorni della piazza. Per noi di Spotted, Piazza Garibaldi è il luogo di ritrovo per eccellenza per raduni e rimpatriate, punto di partenza per ammirare lo stupefacente dedalo di strade e viuzze napoletane, tra chiese e fontane, palazzi del Seicento e vicoli sommersi nella penombra. Ma soprattutto scalo obbligato per chiunque voglia utilizzare la Vesuviana. Siamo tutti lì, in effetti, tutti in attesa del treno che ci riporterà a casa dopo una giornata di lavoro o di studio, o che ci porterà a vedere le bellezze del mondo antico custodite a Pompei ed Ercolano. O a godere della bellezza di Sorrento, del suo mare e dei suoi paesaggi. La stazione Piazza Garibaldi è luogo di arrivi e partenze. Di attese e ritardi, chiacchiere e informazioni, arrabbiature, saluti. E di scelte. E per il nostro primo viaggio abbiamo scelto di salire sul primo treno per Sorrento, lungo un percorso che dalle porte di Napoli, passando per il miglio d’oro, le antichità romane, santuari imponenti e vecchi capisaldi industriali di epoca borbonica, ci congiungerà con il simbolo della penisola sorrentina.