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Via Gianturco

Due minuti di viaggio, nemmeno il tempo di sfogliare due pagine del vostro libro, di avviare un giochino sul telefono o di attaccare bottone con la mora di fronte parlando delle mezze stagioni che non ci sono più, che già si profila la prima tappa del nostro cammino verso Sorrento, la stazione di Via Gianturco.

Fino ai recenti lavori di riqualificazione, conclusisi in questi giorni, via Gianturco a prima vista era una stazione abbastanza anonima ed estremamente spartana, situata in una zona non propriamente residenziale perché di fatto non era altro che un semplice scalo per tutti i lavoratori della zona industriale e del porto.

Diciamo che non avrebbe sfigurato tra le fantastiche stazioni dark (leggesi in rovina) di Gotham.

Peccato che non ci fosse un pipistrello mascherato a vigilare.

Con il declino della cinta industriale, infatti, e il conseguente degrado e abbandono della zona circostante, la stazione è stata lasciata a se stessa, circondata per giunta da un esteso campo Rom che avrebbe sicuramente fatto la felicità della retorica salviniana.

Non tutti i mali venivano per nuocere: perché recarsi nelle periferie delle grandi metropoli indiane o sudamericane per analizzare i processi di espansione delle bidonvile, quando ne abbiamo mirabili esempi dietro casa? 

La situazione, al giorno d’oggi, è progressivamente e sensibilmente migliorata, grazie all’azione congiunta del Comune di Napoli, dell’EAV, nella persona del Presidente Umberto De Gregorio, e di imprenditori locali che hanno contribuito nel valorizzare l’utilità di questa piccola fermata.

Da un lato, infatti, il Comune ha provveduto allo sgombero dell’accampamento nomade, dato che violava palesemente gran parte delle normative vigenti conosciute e sconosciute in materia di igiene e sicurezza.

Dall’altro, la presidenza dell’EAV ha investito energie e risorse per un doveroso restilying della struttura, trasformandolo da un semplice casotto imbruttito dal tempo e dal declino dell’area circostante in un pregevole esempio di recupero artistico di siti di archeologia industriale.

La bellezza salverà il mondo, diceva il principe Myskin ne L’Idiota.

Finora non avevo mai ben capito il significato di questa frase, o meglio, essa si era cristallizzata in immagini eteree ed indefinite, lontano da una sua comprensione concreta.

Del resto, in che modo un concetto tanto soggettivo ed indefinito quanto quello di bellezza potrebbe salvare concretamente la realtà in cui viviamo?

Può farlo perché, concretamente, bellezza significa prendersi cura di ciò che è nostro, significa sottrarre qualcosa all’incuria e al degrado del tempo, e renderlo disponibile agli altri.

Spesso dimentichiamo che è la nostra percezione del valore della realtà in cui viviamo a determinare il grado di vivibilità del nostro quartiere, della nostra strada, della nostra stazione.

È la teoria delle finestre rotte: basta un piccolo segno di degrado, come il finestrino rotto di una macchina parcheggiata, a dare il via libera ad un vortice di inciviltà. Non c’è quartiere in che resista.

La bellezza del murale della stazione, quindi, va oltre lo spettacolare gesto artistico: è bello perché testimonia una presenza, un senso di attenzione e di cura, la volontà di superare le catene del degrado.

La Bellezza è civiltà.

E quindi non fine a se stessa ma tesa a valorizzare gli sforzi della comunità, perché dalla stazione di via Gianturco in cinque minuti puoi raggiungere a piedi autentici paradisi culinari, come Eccellenze campane, La Scottona e tanti altri ancora, alla ricerca delle prelibatezze della nostra tradizione. O le aziende della zona. O il porto. O via Marina.

Ed è finalmente un piacere ritornare a casa, dopo anni di lontananza, e vedere il bello laddove vi erano abbandono e finestre rotte.

“Una volta c’era solo l’oscurità. Se me lo chiedessi, ti direi che la luce sta vincendo”.[1]


[1] True Detective, st. 1, ep. 8 “Carcosa”.


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